La prima sessione dei lavori del congresso 2023 dell’Associazione Melchiorre Gioia è stata legata dal filo conduttore delle “sfide”: la sfida delle nuove tecnologie, la sfida delle riforme processuali, la sfida del sapere coniugare le prime e le seconde evitando i rischio estremi del conformismo intellettuale da un lato, e del solipsismo a-giuridico dal lato opposto. In due parole, come restare umani senza rinunciare all’ausilio della tecnica.

Come ciascun può intendere, si è trattato di temi di alto impegno concettuale, affidati a relatori che non hanno deluso le aspettative.

Dopo i saluti introduttivi del dott. Giovanni Cannavò, Presidente dell’Associazione Melchiorre Gioia (il quale ha sottolineato i problemi e le opportunità creati dalle riforme normative e dall’innovazione tecnologica); della dott.ssa Nunzia Albano; del dott. Umberto Guidoni, codirettore generale dell’ANIA (il quale non ha mancato di sottolineare le criticità d’una delle riforme in itinere, ovvero l’attuazione delle deleghe previste dalla l. 24/17 in materia di assicurazione della r.c. medica); del sen. Antonio Guidi (il quale ha ricordato a tutti i presenti l’importanza ricoperta nel sistema costituzionale dalla tutela dei diritti della persona), i lavori sono entrati nel vivo con le letture magistrali di un giurista (il prof. Pier Giorgio Monateri) e d’un economista (il dott. Leonardo Felician).

Il prof. Monateri ha tenuto una relazione di altissimo profilo su un tema complesso: l’atteggiamento degli esseri umani in generale, e dei giuristi in particolare, nei confronti dell’innovazione tecnologica.

Dopo avere individuato due atteggiamenti opposti, quello della paura catastrofistica (“scenario Distopico”)  e quello della fideistica esaltazione (“scenario Olimpo), ha messo in evidenza come l’uno e l’altro di tali atteggiamenti ha costi e benefìci. Dall’atteggiamento degli individui è poi passato all’ “atteggiamento” degli ordinamenti giuridici, distinguendo anche in questo caso tra due atteggiamenti opposti: l’uno regulation, l’altro di deregulation dei nuovi fenomeni, dimostrando come anche in questo caso ciascuno dei due metodi presenta vantaggi e svantaggi. In particolare ha dimostrato come là dove la qualità della legge è bassa, maggiori sono i tempi di adattamento dell’ordinamento alle nuove realtà tecnologiche, e di conseguenza frequente è il rischio che quando i giuristi giungono ad una interpretazione condivisa della legge, questa è ormai già superata. Il principio messo in evidenza è che là dove aumentano le garanzie diminuisce l’efficienza del sistema, e viceversa.

La conclusione è stata che il problema della società contemporanea non è quello di scegliere tra cieco rifiuto o supina accettazione delle nuove tecnologie, ma piuttosto quello di individuare il giusto equilibrio tra l’uno e l’altra. Un problema, dunque, di gestione e non di accettazione.

Il dott. Felician si è invece concentrato nella sua relazione su un tema più schiettamente assicurativo, e cioè il modo in cui le nuove tecnologie possono consentire di calcolare – con una accuratezza impensabile in passato – il rischio non solo di classi di individui, ma addirittura del singolo assicurato, in base al suo stile di vita personale ed irripetibile, ed in questo modo calcolare il premio con accuratezza millesimale, e garantire tariffe più vantaggiose.

Alle due letture magistrali ha fatto seguito la tavola rotonda sulle conseguenze della riforma c.d. “Cartabia” (d. lgs. 149/22), cui ho preso parte, coordinata dal prof. Flavio Peccenini, la prof. Ilaria Pagni, il prof. Luigi Cipolloni ed il dott. Marco Dell’Utri.

Il sottoscritto ha concentrato il suo intervento su due aspetti della riforma, definiti “trasversali” per consulenti e giuristi: le nuove regole in materia di tecnica scrittoria (ed in particolare il principio di “chiarezza e specificità” degli atti di cui all’art. 121 c.p.c.) e le nuove regole in tema di requisiti per l’iscrizione all’albo dei c.t.u. Quanto al primo aspetto, ho messo in evidenza la necessità che i nuovi princìpi si applichino anche alle relazioni di consulenza, in quanto “atti processuali”; quanto al secondo aspetto, ho messo in evidenza come la riforma nello specifico settore della medicina legale parrebbe avere abbassato, anziché innalzato, il livello di competenza richiesto per l’iscrizione all’albo.

La prof.ssa Ilaria Pagni ha affrontato il tema della riforma del codice di rito da un angolo visuale più ampio, interrogandosi in particolare sul disegno complessivo del legislatore e sul rapporto tra il rito ordinario ed il rito “semplificato” di cui all’art. 281 decies c.p.c..

Ha messo in evidenza come il rito ordinario è divenuto più complesso e forse più lento rispetto al passato, mentre il rito semplificato è connotato da celerità, immediatezza, linearità. Da questo evidente iato tra le due forme processuali sembrerebbe lecito doversi desumere che l’intento del legislatore sia stato quello di incentivare la scelta del rito semplificato, ed abbia ravvisato in esso la forma processuale “normale” per tutte le controversie che non presentino un tasso di complessità o tecnicismo assai elevato.

Il prof. Luigi Cipolloni ha dedicato la sua relazione al concetto di “professionalità” del medico legale, scansionando gli elementi minimi costitutivi di tale concetto. Ha messo in evidenza, attraverso plurimi esempi, come la “speciale competenza” richiesta dalla legge non consista soltanto in un patrimonio di conoscenze, ma esiga anche il saldo possesso della capacità di applicare, là dove occorre, il ragionamento deduttivo o quello induttivo. Ha concluso nel senso che la “speciale competenza” richiesta dalla legge è la capacità di fornire un prodotto qualitativamente elevato, ed ha auspicato che si faccia più stringente, da parte del giudice, il controllo sulla qualità delle consulenze d’ufficio.

Il consigliere Marco Dell’Utri, infine, con una relazione molto apprezzata e di alto profilo concettuale ha tracciato la differenza tra l’ausilio che al giurista può fornire il mero ricorso alle banche dati, come finora conosciute ed utilizzate, e l’ausilio (con i connessi rischi) che invece può dargli l’intelligenza artificiale.

Prendendo le mosse dai concetti di “linguaggio”, “logica simbolica” ed “intelligenza”, ha spiegato che la capacità di risolvere un problema (che è propria della macchina) non coincide con l’intelligenza (che è propria dell’essere umano); che l’apprendimento dell’uomo in null’altro consiste che nell’attribuzione di significati all’oggetto dell’apprendimento, là dove la macchina apprende senza attribuire significati; che il significato di qualunque oggetto dell’apprendimento, tuttavia, è sempre dato dal contesto, che la macchina non è in grado di cogliere.

Ha concluso osservando che il vero problema dell’IA non è tanto il rischio di sostituzione della macchina all’uomo, che per quanto detto resta un rischio limitato, ma piuttosto il rischio che l’IA funzioni in base ad algoritmi che restano occulti, dei quali non è dato conoscere il metodo di funzionamento, e che pertanto i veri “padroni del mondo” diventino non già la macchine, ma chi ne stabilisce il criterio di funzionamento.

Dr. Marco Rossetti
Consigliere III Sezione Civile, Corte di Cassazione

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